Maternità Divine

Sculture lignee della Basilicata dal Medioevo al Settecento

Mercoledì 11 luglio 2018 alle ore 18 è stata inaugurata, presso il Mudit-Museo Diocesano di Tricarico, la riproposizione della sezione tricaricese della mostra 'Maternità Divine. Sculture lignee della Basilicata dal Medioevo al Settecento' che si è tenuta a Firenze nel Sacrario di Santa Croce dal 16 dicembre 2017 al 24 marzo 2018. La mostra è stata promossa dall’APT di Basilicata, in collaborazione con la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio della Basilicata, sotto la cura scientifica della prof.ssa Elisa Acanfora, docente di Storia dell’Arte moderna presso l’Università degli Studi della Basilicata.


L’intento di tale riproposizione in sezione è stato quello di sviluppare i fini didattici e comunicativi dell'esposizione. Tale mostra ha portato, infatti, fuori dalla Basilicata 16 sculture lignee di gran pregio, per far conoscere e apprezzare al di là della regione le bellezze dell'arte lucana in vista dell'appuntamento di Matera Capitale Europea della Cultura 2019..

In considerazione dell'apprezzamento anche di pubblico riscosso, si ripresenta in Regione, per un pubblico di turisti e per gli stessi cittadini, le opere appartenenti alla Diocesi di Tricarico, esponendole nel locale Museo Diocesano. Di recente inaugurato, tale Museo offre la collocazione adatta al godimento e alla esposizione temporanea delle sculture lignee già presentate nella sede di Firenze, che verranno a connettersi alle opere del territorio lì esposte in modo permanente.

L’inaugurazione sarà introdotta da una conferenza nella quale la chiave di lettura storico-artistica precedentemente offerta sarà integrata da un dialogo con la prospettiva storico-religiosa e spirituale, con lo scopo di permettere ai significati nascosti in queste sculture di liberarsi, di parlare ancora oggi al cuore dei fedeli e di tramutarsi in visioni e scelte di vita profetiche.

La serata è stata moderata da don Nicola Soldo, Direttore Mudit.
Sono intervenuti:
Sabrina Lauria, Responsabile allestimenti Mudit
Carmela Biscaglia, Referente scientifico per i beni storici, archivistici e librari della Diocesi di Tricarico
Jean Paul Hernàndez, Docente associato di Teologia dogmatica, Facoltà di Teologia “S. Luigi” di Napoli e responsabile gruppi internazionali “Pietre vive”
S.E.R. Mons. Giovanni Intini, Vescovo di Tricarico.

MARIA SANCTA DEI GENETRIX

Intervento di Jean Paul Hernàndez - Tricarico, Cattedrale, 11 luglio 2018

Vi ringrazio di poter essere con voi qui questa sera. Don Nicola e gli organizzatori di questo incontro mi chiedono di parlare di cosa voglia dire parlare di un’opera d’arte, cioè di cosa voglia dire interpretare un’opera d’arte. Mi introduco con un esempio: immaginate un adolescente, un quindicenne, che riceve nella sua stanza un suo compagno di scuola. A lui vuole spiegare un po’ le fotografie che ha messo nella sua stanza e gli dice: «Guarda: qua, dietro alla porta, ho messo la foto di mia nonna, che è mancata l’anno scorso, ma io le volevo molto bene e perciò ho scelto questa foto dove è vestita, seduta felice nel giardino di casa sua, dove andavo quando io ero piccolo. L’ho messa dietro alla porta perché è il luogo più intimo, non voglio che tutti vedano questa foto. Ho scelto proprio questa, dove lei è nel suo giardino, perché immagino che lei adesso sia felice e mi piace ricordarla bella così: guarda com’è vestita bene. C’è poi un’altra foto...


Vedi, caro amico, vicino alla finestra c’è la mia ragazza. Hai visto com’è bella? Io l’ho messa vicino alla finestra perché quando sto studiando e non se ne può più, o guardo la finestra o guardo la mia ragazza. Hai visto? Ho scelto una foto dove la luce è radente, dove si mette in evidenza il suo volto, il suo corpo e poi c’è la foto che è quella del mio cantautore preferito. Conosci il suo ultimo cd?». Questo è il tipico modo attraverso cui un adolescente può descrivere a un suo amico le foto, i poster, le immagini che ha messo nella sua stanza. Potrebbe venire, però, un sociologo e dire: «Caro ragazzo, è sbagliato come tu spieghi le immagini della tua stanza, perché bisogna spiegarle così: guarda, il 77 % degli adolescenti, fra i 14 e i 17 anni, ha nella sua stanza fotografie dei suoi parenti, tu fai parte di questa percentuale. Inoltre, il 14 % usa il bianco e nero come tu hai fatto. Dunque, è questo ciò che bisogna dire, non che cosa fai con queste foto, ma che tu abiti in questa stanza». Ancora, arriva il chimico: «No, avete sbagliato tutti e due. Bisogna dire: questa fotografia ha tre milioni di pixel e la formula chimica della carta utilizzata è questa, questa e quell’altra». Sopraggiunge lo psicanalista e fa un’ulteriore teoria. Tutte le descrizioni, tutte le chiavi di lettura sono giuste, sono buone, sono importanti, sono istruttive, ma come la chiave di lettura del ragazzo quindicenne che vive lì dentro non ce n’è; cioè è quella vissuta. Ecco possiamo fare lo stesso discorso con la comunità cristiana e le nostre costruzioni sacre, le nostre immagini sacre.

Certo, possiamo descriverle in tanti modi complementari, importantissimi, utili, ma l’importante è la funzione vitale, il contesto vitale, il perché è stato messo qua, il perché tanti amiamo che ci sia questo segno qua. Tanti di quelli che usano questa “stanza della comunità” e questo quindicenne che si chiama Chiesa, comunità cristiana. Come dice Marco Ivan Rupnik, l’arte cristiana è un autoritratto della comunità orante, un autoritratto di quel mistero stranissimo, indescrivibile che è l’incontro del nostro cuore con il mistero, con Dio: un’esperienza indescrivibile. L’arte cristiana è come un balbettamento di ciò, è il tentativo di rendere visibile l’invisibile di questo misterioso incontro. Nel gruppo di volontari che io accompagno in diverse città d’Italia e d’Europa, che si chiama “Pietre vive”, condividiamo quest’espressione: l’arte cristiana, l’arte delle nostre chiese, è il selfie spirituale della comunità.

L’altro è l’orizzonte che ha fatto nascere l’opera: l’orizzonte umano, esistenziale, spirituale, comunitario, filosofico, teologico: perché si è messa quell’opera lì, che funzione aveva, qual era l’atmosfera umana, spirituale, comunitaria per la quale è nata quell’opera d’arte. Mettere in dialogo questi due orizzonti è ciò che il pensiero dell’Ermeneutica, gli studiosi, i pensatori e i filosofi dell’Ermeneutica ci insegnano. Altrimenti – sostiene Gadamer – non viene operata un’interpretazione scientifica. Per esempio, una descrizione di un’opera d’arte cristiana, nata per il culto e per la devozione o per la liturgia, che fa meno del contesto liturgico non è un’interpretazione scientifica; cioè, è come riscrivere un’opera pensando sia nata per il museo, ma non è così. Sono contentissimo di aver sentito prima l’architetto (Sabrina Lauria, ndr), che proprio il museo fa lo sforzo, con questi contenitori, di metterci nell’atmosfera, nell’atteggiamento interiore di ricordare che queste opere non sono state create per un museo ma per un contesto vitale. Adesso dico alcuni esempi con alcune immagini che mi fa piacere farvi vedere. Questa è una delle immagini mariane più antiche che abbiamo: sta nelle catacombe di Priscilla a Roma ed è datata nella prima metà del III secolo.

Ci potremmo chiedere: Che cosa ci fa un racconto dell’Annunciazione in un cimitero? Perché la catacomba è un cimitero, un luogo per i morti. Come mai nel centro di questo cubicolo, addirittura con questa decorazione linearistica geometrica che ha la sua simbologia, perché con tre cerchi concentrici? Esso dice alle persone che entrano a pregare con i loro morti o per i loro morti in quel cubicolo che la chiave di lettura della tua preghiera, cioè ciò che tu stai facendo qua, il selfie spirituale di quello che tu stai facendo è questo. Sappiamo, dagli scritti dei Padri, nel II secolo, nel III secolo, che l’Annunciazione era il racconto descritto molto spesso come l’esempio di come Dio può portare la vita in un contesto impossibile; cioè, ricordate – chi di voi ha familiarità con il testo del primo capitolo di Luca dove si racconta dell’Annunciazione – che nulla è impossibile a Dio. Questo lo troviamo nella liturgia antica, nei testi dei Padri della Chiesa coetanei di quest’affresco e, dunque, è un segno per dire che cosa sta succedendo adesso fra te e il tuo morto, il morto parente tuo che è in quella tomba lì: qualcosa di analogo, di simile a quello che è successo nell’Annunciazione; anzi, l’Annunciazione è la chiave di lettura principale per capire che cosa tu stai facendo, la parola di Dio che tu stai pronunciando sopra il tuo morto, la liturgia che tu stai celebrando qua, vicino alla tomba, è parola di resurrezione, di vita nuova: nulla è impossibile a Dio. Abbiamo altri esempi che invece sono legati agli altari, sempre del primo millennio oppure come la Martorana a Palermo.

Sopra l’arco trionfale, esattamente sopra l’altare. Perché proprio l’Annunciazione sopra l’altare o, spesso, sopra gli altari o, a volte nelle nostre chiese, sopra il tabernacolo o nella decorazione frontale degli altari? Anche lì abbiamo dei testi, abbiamo delle parti della liturgia antica dove vediamo chiaramente che, nel contesto vitale del cristianesimo del primo millennio, l’Eucaristia è la continuazione dell’Incarnazione; cioè, i Padri ci dicono che, così come Dio è venuto a essere realmente presente in Maria, presenza reale nel ventre di Maria, così succede esattamente quando il sacerdote pronuncia le parole della consacrazione, quando diventa realmente presente il corpo di Cristo. Dunque, tu comunità sei Maria, il tuo vero autoritratto spirituale, di te comunità, è Maria, fecondata, raggiunta da quella parola che è l’angelo, la liturgia, che è ciò che noi celebriamo nella messa, che rende presente realmente il corpo di Cristo. Andiamo di nuovo nelle catacombe di Priscilla, ancora una volta all’inizio del III secolo, nel 220-225.

Anche questa è una delle immagini più antiche in assoluto di tutta la storia dell’iconografia mariana, questa è la più antica immagine di Maria e abbiamo un’altra interpretazione o, meglio, un altro elemento-chiave di lettura per una possibile interpretazione. Campeggia una stella. Si riconosce sopra, appena sfumato fra le due teste, una zona più oscura che è una stella. Sulla sinistra un uomo che sembra segnalare, indicare questa stella. Dall’altra parte, verso la destra, Maria e il Bambino sono abbastanza facilmente riconoscibili. Chi è quest’uomo che segnala, che indica la stella? Ci dicono gli studiosi che quell’uomo è un profeta dell’antico Testamento, Balaam, che aveva preannunciato la venuta del Messia come una stella. Allora, prima dei Re Magi, esiste già nell’Antico Testamento il tema della stella legata al Messia che sta per venire, al Messia che stiamo aspettando. Ma che senso ha rappresentarlo sopra quattro tombe, come sta esattamente situato nelle catacombe di Priscilla? Il desiderio, la promessa della vita, perché Balaam incarna sia i Padri – coetanei di queste immagini – sia l’annunciare una vita che può ancora non vedi. L’annunciare è saper aspettare quello che i cristiani nelle catacombe sarà la risurrezione finale che tu ancora non vedi, quella luce che tu ancora non vedi. Così, possiamo passare a un altro tipo di rappresentazione.

Dopo Balaam, chi è rappresentato soprattutto con una stella sono ovviamente i Re Magi. Dipende da dove sono rappresentati i Re Magi. Allora, a seconda di dove sono rappresentati i Re Magi, possiamo capirne la funzione, il significato che la comunità dava a questa rappresentazione. Essi possono essere rappresentati sul fronte degli altari: che cosa significa, di chi sono l’autoritratto, questi Re Magi? Ebbene, di noi tutti che ci avviciniamo a quell’altare, con il desiderio di incontrare Gesù e troviamo Maria che porge il Bambino Gesù a te, Re Mago che, dopo un lungo cammino, perché forse sei venuto da lontano, sei venuto qua, a questa liturgia, in quella liturgia che ti permette di capire qual era il significato vissuto del popolo della comunità quando vedevano questa immagine: “Ah, anche noi, come i Re Magi, siamo di fronte a Gesù che ci è proposto, che ci è donato, consegnato!”. Ci possono essere anche interpretazioni differenti, come per la controfacciata a Santiago di Compostela. Che senso hanno i Re Magi a Santiago di Compostela, nel nord-ovest della Spagna. Perché hanno fatto questo bassorilievo per i pellegrini che arrivavano da lontano camminando? Ancora una volta, è un selfie, è un autoritratto del pellegrino, è una catechesi rivelativa per il pellegrino: “Tu sei come quei Re Magi, perché tu, se vieni a Santiago, che è all’estremo Occidente, vieni per forza da Oriente, come i Re Magi e segui una stella (dal latino sidus-eris, da cui desiderio) segui un tuo desiderio, una sete che tu hai dentro, qualcosa che tu stavi cercando e arrivi a Compostela, cioè al “campo delle stelle”, campus stellae. Tale nove è spiegato da una leggenda che narra del ritrovamento, nell’814, dei resti dell’apostolo Giacomo. Si racconta di un monaco attratto dal cadere delle stelle su quel campo, ove scoprì i resti dell’Apostolo. Allora, tu sei come quei Re Magi.

Vedete che è sempre una spiegazione dell’esperienza spirituale di chi è fisicamente lì davanti, altrimenti noi diciamo che è un bassorilievo di tre uomini che camminano. Ci sono anche altri contesti vitali, ci sono altri usi o funzioni come, per esempio nelle facciate di alcune cattedrali medievali o nei timpani di alcune cattedrali medievali. Che significato hanno, come parlare, come spiegare queste processioni di Re Magi, visibili a chi sta per entrare nella chiesa? Di nuovo, tu entri qua come i Re Magi e che qui dentro incontri la tenerezza di Gesù Bambino, la fisicità di Dio che ti è donata dalla comunità cristiana, simboleggiata da Maria. Comunque, rivediti, comprenditi più profondamente in questa dinamica, in questo passo che è quello dei Re Magi. Abbiamo ancora un altro esempio, sempre dell’Annunciazione, in alto a sinistra e poi dei Re Magi, nel secondo registro della facciata di Santa Maria Maggiore, a Roma. È stato citato prima il Concilio di Efeso, nel 431. Esso, in riferimento a tale facciata, ci serve a dire che tutta la liturgia non è altro che il ripetere la storia dell’incarnazione; l’arco trionfale racconta l’incarnazione: annunciazione e poi natività e poi fuga in Egitto raccontano la narrazione dell’infanzia di Gesù per dire che quello che sta succedendo attualmente dentro di te, la presenza reale di Dio, la Theotókos, la genitrice di Dio è, in realtà, figura della comunità che portiamo dentro di noi, dentro la nostra liturgia, dentro il nostro stare insieme, dentro l’essere comunità, la presenza reale di Cristo.

Alcune altre immagini, invece, nel primo millennio – rare immagini della rappresentazione di Maria – isolano Maria dal racconto. Fino ad adesso, vi ho presentato delle narrazioni in immagini, cioè la comunità cristiana, soprattutto durante il primo millennio, ama rivedersi, rispecchiarsi in una narrazione fatta di immagini. A un certo momento, si isola e vediamo più vicino alle nostre quattro opere (quelle oggetto della mostra, ndr), la figura di Maria o la figura di Maria e del Bambino dalla narrazione, per rappresentare solo Maria e il Bambino. Ecco, questa è un’operazione che avviene gradualmente, ma che è molto interessante perché, in qualche modo, è come far entrare te attivamente, interattivamente a interpretare ogni volta, di nuovo, quello che prima era rappresentato quando c’era la rappresentazione completa della narrazione; adesso, la narrazione sei tu, adesso devi interagire, come succede nella preghiera, con questa immagine di Gesù portata da Maria, cioè portata da qualcun altro. Non ti sei inventato Gesù, Gesù ti è stato dato da qualcun altro. Nella quarta delle vostre opere (Madonna Metterza di Stigliano), è ancora più bello, c’è addirittura Anna, l’avevamo visto prima. È straordinario questo, cioè il tuo stare con Gesù, ricevere la fede, incontrare Gesù è una storia che ha attraversato le generazioni, le generazioni della comunità, Maria è sempre simbolo della comunità che ti porge, che ti fornisce, che ti consegna l’incontro misterioso con Dio. Allora, adesso sei tu lì davanti. E infine, queste immagini della Basilissa, della regina o come qua, a Santa Maria di Trastevere, o qua a Sant’Angelo in Formis, sono il rivestimento della sovranità di Maria e della festa di noi tutti. Lei è la regina, l’imperatrice come, in realtà, siamo ciascuno di noi, cioè la dignità di tutto il popolo, di tutta la comunità ancora una volta rispecchiato e qua, a Sant’Angelo in Formis, rispecchiato nell’atto stesso dell’orante, cioè quando tu preghi. Quando tu preghi, sei la regina; quando tu cerchi nel tuo cuore Dio, sei rivestito di gioia e non è un caso che il testo di Isaia dice esattamente queste parole, che sei rivestito della veste del sovrano, della veste di salvezza, della veste di luce, è un testo molto commentato dai maestri medievali, anche del primo Medioevo.

Questo popolo, rivestito di vesti di luce, di veste di sovrano, siamo noi tutti nell’incontro con Dio. L’ultimo punto è l’importanza della simbologia dei dettagli, cioè del sapere spiegare bene l’impatto di alcuni simboli che hanno attraversato le culture, i secoli e le religioni, perché sono simboli profondamente legati alla nostra antropologia di fondo, al di là di fede e non fede. C’è stata prima la Maternità, il bisogno di un riferimento di tenerezza, il bisogno di esprimere l’esperienza di fede come esperienza di tenerezza, cioè, forse più che, perché la nostra esperienza è quella di una povertà, perché la nostra esperienza è quella di una durezza, di una paura, di uno scontro, di una violenza. Allora, vengo qua, Madre di tenerezza, per una ricerca di tenerezza che è specchio della tenerezza di Dio e fa parte della ricerca dell’essere umano. La nostra tradizione lo esprime in questo rapporto materno fra Maria e il bimbo; Maria simbolo della tenerezza di Dio, è vero ma della nostra tenerezza con il bimbo, anche. Questo ha una radice biblica, non è un paganesimo del cattolicesimo. Quando Gesù dice: “Chi sono mia madre, i miei fratelli? Voi, chiunque ascolta la Parola di Dio, questa è mia madre”. Fratello, sorella e madre: dunque, la comunità cristiana è ciascuno di noi. Nel modo di rapportarsi a Gesù diventa in qualche modo madre di Gesù, concepisce la presenza; è luogo, come dicevamo, dove l’incarnazione continua ma dove il rapporto giusto è quello di tenerezza, di rapportarsi come una madre.

L’ultimo e taglio, perché mi piace spiegare, è stato citato quello del melograno che, molto spesso, nella iconografia mariana è un simbolo precristiano di tantissime civiltà. Nella Grecia antica era simbolo della fertilità, legato alle divinità, anche dell’eros, della fertilità, della fecondità. Nell’Antico Testamento, come è stato giustamente detto, è uno dei tre frutti della Terra promessa, in cui gli esploratori mandati da Giosuè, entrati nella Terra promessa, tornano con fichi, uva e melograno. Dunque, quando noi vediamo un melograno in un testo cristiano, è la fantastica connessione fra questo nostro antico paganesimo delle nostre terre che fa parte di ciò che abbiamo nelle vene, che non è da disprezzare per noi cristiani ma fa parte dell’esperienza religiosa profonda dell’umanità e l’inserto biblico che riesce a inculturare lì dentro un significato ancora più profondo: guarda, è la Terra promessa, cioè è un modo di vedere la terra come promessa. La Terra promessa non è un luogo preciso della geografia, non è la terra di Canaan ma è il cambiamento di sguardi sulla tua terra, è il modo di vedere la tua terra, ogni terra, come Terra promessa, come dono di Dio, come luogo in cui incontri Dio. Allora, Maria e il Bambino con il melograno è un invito a cambiare lo sguardo sulla tua terra. Cambia lo sguardo su questa Basilicata, cambia lo sguardo su Tricarico, è terra promessa, è qua, non è Gerusalemme, la Terra promessa è qua, te lo sta dicendo questa statua.

(trascrizione a cura di Vito Sacco, rivista e autorizzata dall’autore)

PERCORSO SPIRITUALE “ MARIA SANCTA DEI GENETRIX”

di S.E. Mons. Giovanni Intini, vescovo di Tricarico

L’ ultima immagine che la Sacra Scrittura ci consegna e che può essere attribuita contemporaneamente alla Vergine Maria e alla Chiesa è quella del Libro dell’ Apocalisse:

“Un segno grandioso apparve nel cielo: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e, sul capo una corona di dodici stelle. Era incinta, e gridava per le doglie e il travaglio del parto.” (Ap 12,1-2).
Dunque l’immagine di una madre: una Madre che ha partorito, Maria, Sancta Dei Genetrix, come la fede della chiesa l’ha riconosciuta, venerata e invocata, e una Madre, la Chiesa, che ogni giorno impara sempre di più a farlo, partorendo Cristo nella Parola, nei Sacramenti, nella carità.

Le nostre quattro splendide “Madonne”, sculture che testimoniano non solo la preziosa opera artistica ma anche la fede del nostro popolo, che non si accontenta di formule da recitare, ma si nutre della contemplazione del bello, frutto del tentativo umano di prolungare l’ opera creativa di Dio che fa belle tutte le cose, ci suggeriscono un percorso di vita spirituale, perché noi, Chiesa del terzo millennio, manteniamo intatta la capacità generativa, che ha nella Vergine Maria il modello ispiratore.
Quello che voglio provare a proporvi è un percorso che ci aiuti a crescere nella capacità di continuare a generare Cristo per gli uomini e le donne del nostro tempo, per diventare sempre più una generazione generativa che guarda al futuro senza paure ma con gli occhi della speranza.

Madonna col bambino in trono (Armento)

Ignoto intagliatore lucano (?) di cultura catalana
Legno intagliato e dipinto; cm 110x56x45
Armento, cappella di Santa Lucia al Casale
Museo Diocesano Tricarico
Primo quarto del XIII secolo


Generare è guardare il futuro con speranza.

Nella scheda tecnica di questa scultura, si sottolinea che la Madonna ha “lo sguardo fisso davanti a sé”, non è uno sguardo perso nel vuoto ma lo sguardo carico di speranza di chi guarda l’orizzonte con la certezza di scorgere segni nuovi di speranza.

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I segni nuovi di speranza germogliati nella storia, quando nel tempo maturo del progetto di Dio, il Verbo si è fatto carne: Gesù Cristo “…unigenito Figlio di Dio…generato, non creato, della stessa sostanza del Padre…”.

Lo sguardo di speranza della Madre è generato da Colui che da Lei è stato dato alla luce; perciò davanti agli occhi della nostra fede, Maria si presenta come la Donna “ generativa” perché generata nella fede dal Figlio, perciò stupito davanti a tale mistero, Dante può cantare: “ Vergine madre, figlia del tuo figlio, umile e alta più che creatura, termine fisso d’eterno consiglio…”.

La strada è segnata anche per noi, pellegrini della fede, generare Cristo nel vissuto quotidiano è la possibilità di diventare generativi nella carità e nella speranza, per provare a trasformare questa valle di lacrime nel giardino della risurrezione del mattino di Pasqua.

Un ulteriore particolare della scultura ci spinge in questa direzione: sia la Madre che il Bambino hanno in mano un frutto, che la scheda tecnica definisce “ pomo”: Senza alcuna competenza artistica ma con gli occhi della fede, purificati dal collirio della Scrittura sacra, provo a immaginare che si possa trattare di una melagrana, frutto presente nelle pagine della Bibbia e che anche i Padri della Chiesa hanno assunto come segno di fecondità.

Gesù che ha in mano una melagrana è un richiamo al dono della vita nuova, che ci ha donato con la sua resurrezione. Dalla mela della disobbedienza e dell’ inganno, alla melagrana della resurrezione, generativa di vita nuova per una mutazione genetica della storia dell’ umanità.

E il fatto che anche la Vergine Madre, icona della Chiesa, stringe nella mano la melagrana, vuole ricordarci che il dono della vita nuova e feconda nata dalla resurrezione di Cristo è fatto a noi, Chiesa, che non possiamo cercare la fecondità e la vita nuova in progetti a basso costo o in scorciatoie di comodo, ma solo nel diventare sempre più generativi in Cristo, per fare con Lui, nuove tutte le cose.

Generare nella fecondità della fede è per noi la sfida di questo tempo.

Madonna col bambino in trono (Armento)

Ignoto intagliatore lucano
Legno intagliato dorato, argentato e dipinto; cm 115x41x22
Armento, chiesa Madre di S. Luca Abate
Museo Diocesano Tricarico
Secondo quarto del XIV secolo


Generare è nutrirsi di Cristo, Sapienza del Padre.

Già a uno sguardo frettoloso questa Madonna appare in tutta la sua regalità, e la scheda tecnica ci ricorda che questa scultura va collocata tra le “ Sedes Sapientiae “ lucane, Madonne che richiamano caratteri artistici simili.

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Dal versante dello sguardo di fede, vediamo plasticamente scolpite in quest’opera le parole del Libro dei Proverbi: “ La sapienza si è costruita la sua casa, ha intagliato le sue sette colonne. Ha ucciso il suo bestiame, ha preparato il suo vino e ha imbandito la sua tavola.
Ha mandato le sue ancelle a proclamare sui punti più alti della città: << Chi è inesperto venga qui !>>. A chi è privo di senno ella dice: << Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato. Abbandonate l’inesperienza e vivrete, andate diritti per la via dell’ intelligenza>>. ( Prov 9,1-6).

Dalla scultura è facile cogliere che Maria è abitata dalla Sapienza, il Bambino, infatti sembra dentro la Madre, è tutt’uno con Lei. Maria le fa da casa. Cristo è la “ sapienza di Dio “ (1 Cor 1,24) e la Madre è “ Sede della Sapienza “ perché ha accolto, ospitato, nutrito Colui che non soltanto racchiude in sé tutti “ i tesori della sapienza “ (Col 2,3), ma è la sapienza stessa di Dio.

Maria si è lasciata abitare dalla Sapienza, ha dato alla luce la Sapienza fatta carne e ha camminato nell’orizzonte della Sapienza e perciò “…avanzò nella peregrinazione della fede e serbò fedelmente la sua unione col Figlio” ( Lumen gentium 58).

L’immagine di questa nostra Madonna, che ha accompagnato il cammino di fede di una porzione della nostra gente lucana, oggi interroga noi, costringendoci a riflettere sulle fonti della nostra sapienza. Dove ci approvvigioniamo di sapienza?  E quale sapienza ispira le nostre scelte di vita?

La sapienza a cui ci riferiamo non va confusa con la scienza, la cultura, i libri, le nozioni, il sapere. Gli uomini che detengono il sapere non sono necessariamente dei sapienti, né gli intellettuali dei saggi.

La sapienza genuina viene da lontano e ha bisogno del laboratorio sperimentale e fecondo della vita, e non di asettici e freddi uffici o di luccicanti palcoscenici dove sedicenti maestri esibiscono spudoratamente la propria vanità insieme alla loro incontinenza verbale.

La sapienza non s’improvvisa, ma esige i tempi lunghi delle lente maturazioni, dei dubbi, delle prove, dei confronti più impegnativi, delle spoliazioni più scarnificanti, della sincerità più costosa, del riconoscimento onesto degli errori, della consapevolezza dei propri limiti, del dissiparsi delle illusioni.

Esclude ogni scorciatoia che dispensi dalla ricerca personale e sofferta, dal sacrificio, dalla fatica.

La sapienza non garantisce il successo nella vita, ma assicura una vita all’altezza dell’uomo, improntata alla dignità, alla ragionevolezza, alla coerenza e alla libertà.

Dunque possiamo fare nostra la richiesta che il giovane re Salomone rivolge a Dio all’inizio del suo mandato regale: “ Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male…” ( 1 Re 3,9).

Madonna col bambino e Sant'Anna (Stigliano)

Ignoto scultore di cultura nordica (Maestro del Polittico di Stigliano?)
Legno intagliato dorato e dipinto; cm 166,5x54x46
Stigliano, chiesa madre di S. Maria Assunta
Circa 1518 (post-quem)


Generare è tessere un’ alleanza tra generazioni.

Personalmente è la prima volta che mi capita di ammirare una scultura del genere. Una Madonna col Bambino sovrastata da Sant’ Anna, madre della Vergine Santa.

Suggestivo è il messaggio che si ricava da una attenta osservazione: Sant’ Anna ha generato Maria di Nazareth, che a sua volta ha dato alla luce Gesù, il Salvatore.

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Di generazione in generazione per tessere un’alleanza tra generazioni e narrare il cammino di Dio con gli uomini.

Nel brano del Libro del Siracide, che la liturgia propone come prima lettura per la memoria dei Santi Gioacchino e Anna, leggiamo: “ Facciamo l’elogio di uomini illustri, dei padri nostri nelle loro generazioni. Questi furono uomini di fede, e le loro opere giuste non sono dimenticate. Nella loro discendenza dimora una preziosa eredità: i loro posteri. La loro discendenza resta fedele alle alleanze e grazie a loro anche i loro figli. Per sempre rimarrà la loro discendenza e la loro gloria non sarà offuscata.” ( Sir 44,1. 10-13).

In un prezioso libretto edito dall’ editrice AVE, scritto a quattro mani da Paolo e Vittorio Emanuele Giuntella, dal titolo Il gomitolo dell’alleluia. Di padre in figlio il filo della fede; come presentazione al testo si legge: “ Dopo aver tanto cercato, dubitato, sperato, cantato, pianto, pregato, ritroveremo il capo e la coda del gomitolo della fede, solo apparentemente disperso nella storia degli uomini perché lo trasmettessero di padre in figlio, disseppellendolo ogni volta dalla polvere, per ritrovare la traccia del sentiero fino a quel mattino di sole e di luna quando tutti insieme <<là canteremo per sempre il grande alleluja del raccolto>>”:

L’alleanza armonica tra generazioni è veicolo sicuro per la trasmissione del vangelo, non solo attraverso le parole ma anche e soprattutto attraverso i gesti della vita, quelli generativi che danno alla luce progetti di speranza, attraverso la fantasia della carità, radicati e fondati nella fede.

“ Primi messaggeri, anzi, araldi della fede per i figli sono i genitori. Lo sono a condizione di far fare Pasqua alla loro famiglia: passare da una semplice convivenza di affetti, di legami carnali e di interessi, a una comunità d’amore e di vita che acquisisce la forma e la grazia di una Chiesa domestica.

In una famiglia di cristiani, mai bigotti né impazziti a causa dell’ intellettualismo, avviene quanto di più semplice si possa desiderare: la vita, la vita quotidiana assurge alla dignità di liturgia. Forse senza riti particolari, ma autentica liturgia, culto gradito a Dio.” ( Pino Scabini).

Perciò questa scultura è per noi oggi monito a continuare a tessere la tela delle generazioni spesso lacerata dalla ricerca egoistica del benessere e della realizzazione personale che porta alla dolorosa decisione di confinare in dorati esili i nostri anziani e affidare a sterili strutture i nostri bambini, diventati problema da gestire.

Tessere la tela dell’alleanza armonica tra generazioni è generare alla fede nel solco di una tradizione viva e mai irrigidita in una mera conservazione del passato.

Madonna orante (Calciano)

Bottega dei Moranzone (ambito di Giacomo Moranzone)
Legno intagliato dorato e dipinto, occhi in vetro; cm 75x35x15
Calciano, chiesa di S. Giovanni Battista (proveniente dalla chiesa della Rocca di Calciano)
Museo Diocesano Tricarico
Metà del XV secolo


Generare è formare Cristo nel cuore dei credenti.

Confesso che in questo percorso spirituale mariano avevo deciso di partire da questa Madonna, reputandola la Vergine orante dell’Annunciazione.

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La lettura della scheda tecnica mi ha orientato diversamente, infatti dagli studi artistici si ritiene che si tratti di una Madonna orante, in adorazione verso il Bambino, che un tempo doveva essere poggiato in bilico sulle sue gambe.

La spiegazione tecnica diventa simbolica all’occhio della fede. Il Bambino non c’è perché è risorto e abita per la fede nel cuore dei credenti.

Tuttavia la Madre resta orante nel cuore del Cenacolo, prima e una volta assunta in cielo “ accompagna con materno amore la Chiesa e la protegge nel cammino verso la patria fino al giorno glorioso del Signore” ( Prefazio della B. Vergine Maria III).

La Chiesa, accompagnata da questa materna vigilanza, cammina nel tempo continuando la sua missione di generare Cristo nel cuore degli uomini e della donne di ogni tempo.

Perciò le parole dell’apostolo Paolo suonano per noi come antico e sempre nuovo programma: “ …figli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finchè Cristo non sia formato in voi!” ( Gal 3, 19).

E’ questa la faticosa generatività della Chiesa, che conosce i dolori e il travaglio del parto per formare Cristo nel cuore dei credenti, sempre sedotti dall’antico serpente che ha come obiettivo quello di “ divorare il bambino appena lo avesse partorito.” ( Ap 12, 4).

In un tempo che cambia velocemente, per noi Chiesa la sfida resta sempre la stessa: restare in preghiera per nutrire quella meravigliosa azione che Dio continua a chiederci: generare Cristo nel cuore degli uomini, perché si realizzi il progetto del Padre, fare di Cristo il cuore del mondo.

Con le parole di Don Tonino Bello concludo elevando la lode alla Madre:

“ Santa Maria, donna gestante, creatura dolcissima che nel tuo corpo di vergine hai offerto all’Eterno la pista d’atterraggio nel tempo, scrigno di tenerezza entro cui è venuto a rinchiudersi Colui che i cieli non riescono a contenere, noi non potremo sapere con quali parole gli rispondevi, mentre te lo sentivi balzare sotto il cuore, quasi volesse intrecciare anzi tempo colloqui d’amore con te. Forse in quei momenti ti sarai posta la domanda se fossi tu a donargli i battiti, o fosse lui a prestarti i suoi.

Vigilie trepide di sogni, le tue. Mentre al telaio, risonante di spole, gli preparavi con mani veloci pannolini di lana, gli tessevi lentamente, nel silenzio del grembo, una tunica di carne. Chi sa quante volte avrai avuto il presentimento che quella tunica, un giorno, gliela avrebbero lacerata. Ti sfiorava allora un fremito di mestizia, ma poi riprendevi a sorridere pensando che tra non molto le donne di Nazaret, venendoti a trovare dopo il parto, avrebbero detto: <<rassomiglia tutto a sua madre>>.

Santa Maria, donna gestante, fontana attraverso cui dalle falde dei colli eterni, è giunta fino a noi l’acqua della vita, aiutaci ad accogliere come dono ogni creatura che si affaccia a questo mondo. Non c’è ragione che giustifichi il rifiuto. Non c’è violenza che legittimi violenza. Non c’è programma che non possa saltare di fronte al miracolo di una vita che germoglia.

Santa Maria, donna gestante, grazie perché, se Gesù l’hai portato nel grembo nove mesi, noi, ci stai portando tutta la vita. Donaci le tue fattezze. Modellaci sul tuo volto. Trasfondici i lineamenti del tuo spirito.

Perché, quando giungerà per noi il dies natalis, se le porte del Cielo ci si spalancheranno dinnanzi senza fatica, sarà solo per questa nostra, sia pur pallida, somiglianza con te.” amen

MATERNITÀ DIVINE

Sculture lignee della Basilicata dal Medioevo al Settecento
Riproposizione della sezione tricaricese delle sculture

La mostra “Maternità divine” è stata realizzata a Firenze presso il Complesso monumentale di Santa Croce dal 16/12/2017 al 24/3/2018 sotto la cura scientifica della prof.ssa Elisa Acanfora. La riproposizione ed esposizione delle sculture di proprietà della Diocesi di Tricarico inserite nella stessa (MuDiT, 11 luglio-8 ottobre 2018) è stata realizzata da:

don Nicola Soldo
direttore MUDIT-Museo Diocesano di Tricarico

Curatorium:
arch. Sabrina Lauria, responsabile degli allestimenti
Giuseppe Marinelli, conservatore museale
Prof.ssa Carmela Biscaglia, storica
Mons. Nicola Urgo, delegato del capitolo cattedrale
Ing. Nicola Ferri, responsabile tecnico
Prof.ssa Antonietta Vizzuso
Arch. Giuseppe Saponara

Si ringrazia sentitamente:
l’APT di Basilicata per l’autorizzazione alla realizzazione dell’estratto
La Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio della Basilicata
Elisa Acanfora, Professore Associato di Storia dell’Arte moderna presso l’Università degli Studi della Basilicata.