Vi ringrazio di poter essere con voi qui questa sera. Don Nicola e gli organizzatori di questo incontro mi chiedono di parlare di cosa voglia dire parlare di un’opera d’arte,
cioè di cosa voglia dire interpretare un’opera d’arte. Mi introduco con un esempio: immaginate un adolescente, un quindicenne, che riceve nella sua
stanza un suo compagno di scuola. A lui vuole spiegare un po’ le fotografie che ha messo nella sua stanza e gli dice: «Guarda: qua, dietro alla porta, ho messo la foto di mia nonna,
che è mancata l’anno scorso, ma io le volevo molto bene e perciò ho scelto questa foto dove è vestita, seduta felice nel giardino di casa sua, dove andavo quando io ero piccolo.
L’ho messa dietro alla porta perché è il luogo più intimo, non voglio che tutti vedano questa foto. Ho scelto proprio questa, dove lei è nel suo giardino,
perché immagino che lei adesso sia felice e mi piace ricordarla bella così: guarda com’è vestita bene. C’è poi un’altra foto...
Vedi, caro amico, vicino alla finestra c’è la mia ragazza. Hai visto com’è bella? Io l’ho messa vicino alla finestra perché quando sto studiando e non se ne può più, o guardo la finestra o guardo la mia ragazza. Hai visto? Ho scelto una foto dove la luce è radente, dove si mette in evidenza il suo volto, il suo corpo e poi c’è la foto che è quella del mio cantautore preferito. Conosci il suo ultimo cd?». Questo è il tipico modo attraverso cui un adolescente può descrivere a un suo amico le foto, i poster, le immagini che ha messo nella sua stanza. Potrebbe venire, però, un sociologo e dire: «Caro ragazzo, è sbagliato come tu spieghi le immagini della tua stanza, perché bisogna spiegarle così: guarda, il 77 % degli adolescenti, fra i 14 e i 17 anni, ha nella sua stanza fotografie dei suoi parenti, tu fai parte di questa percentuale. Inoltre, il 14 % usa il bianco e nero come tu hai fatto. Dunque, è questo ciò che bisogna dire, non che cosa fai con queste foto, ma che tu abiti in questa stanza». Ancora, arriva il chimico: «No, avete sbagliato tutti e due. Bisogna dire: questa fotografia ha tre milioni di pixel e la formula chimica della carta utilizzata è questa, questa e quell’altra». Sopraggiunge lo psicanalista e fa un’ulteriore teoria. Tutte le descrizioni, tutte le chiavi di lettura sono giuste, sono buone, sono importanti, sono istruttive, ma come la chiave di lettura del ragazzo quindicenne che vive lì dentro non ce n’è; cioè è quella vissuta. Ecco possiamo fare lo stesso discorso con la comunità cristiana e le nostre costruzioni sacre, le nostre immagini sacre.
Certo, possiamo descriverle in tanti modi complementari, importantissimi, utili, ma l’importante è la funzione vitale, il contesto vitale, il perché è stato messo qua, il perché tanti amiamo che ci sia questo segno qua. Tanti di quelli che usano questa “stanza della comunità” e questo quindicenne che si chiama Chiesa, comunità cristiana. Come dice Marco Ivan Rupnik, l’arte cristiana è un autoritratto della comunità orante, un autoritratto di quel mistero stranissimo, indescrivibile che è l’incontro del nostro cuore con il mistero, con Dio: un’esperienza indescrivibile. L’arte cristiana è come un balbettamento di ciò, è il tentativo di rendere visibile l’invisibile di questo misterioso incontro. Nel gruppo di volontari che io accompagno in diverse città d’Italia e d’Europa, che si chiama “Pietre vive”, condividiamo quest’espressione: l’arte cristiana, l’arte delle nostre chiese, è il selfie spirituale della comunità.
L’altro è l’orizzonte che ha fatto nascere l’opera: l’orizzonte umano, esistenziale, spirituale, comunitario, filosofico, teologico: perché si è messa quell’opera lì, che funzione aveva, qual era l’atmosfera umana, spirituale, comunitaria per la quale è nata quell’opera d’arte. Mettere in dialogo questi due orizzonti è ciò che il pensiero dell’Ermeneutica, gli studiosi, i pensatori e i filosofi dell’Ermeneutica ci insegnano. Altrimenti – sostiene Gadamer – non viene operata un’interpretazione scientifica. Per esempio, una descrizione di un’opera d’arte cristiana, nata per il culto e per la devozione o per la liturgia, che fa meno del contesto liturgico non è un’interpretazione scientifica; cioè, è come riscrivere un’opera pensando sia nata per il museo, ma non è così. Sono contentissimo di aver sentito prima l’architetto (Sabrina Lauria, ndr), che proprio il museo fa lo sforzo, con questi contenitori, di metterci nell’atmosfera, nell’atteggiamento interiore di ricordare che queste opere non sono state create per un museo ma per un contesto vitale. Adesso dico alcuni esempi con alcune immagini che mi fa piacere farvi vedere. Questa è una delle immagini mariane più antiche che abbiamo: sta nelle catacombe di Priscilla a Roma ed è datata nella prima metà del III secolo.
Ci potremmo chiedere: Che cosa ci fa un racconto dell’Annunciazione in un cimitero? Perché la catacomba è un cimitero, un luogo per i morti. Come mai nel centro di questo cubicolo, addirittura con questa decorazione linearistica geometrica che ha la sua simbologia, perché con tre cerchi concentrici? Esso dice alle persone che entrano a pregare con i loro morti o per i loro morti in quel cubicolo che la chiave di lettura della tua preghiera, cioè ciò che tu stai facendo qua, il selfie spirituale di quello che tu stai facendo è questo. Sappiamo, dagli scritti dei Padri, nel II secolo, nel III secolo, che l’Annunciazione era il racconto descritto molto spesso come l’esempio di come Dio può portare la vita in un contesto impossibile; cioè, ricordate – chi di voi ha familiarità con il testo del primo capitolo di Luca dove si racconta dell’Annunciazione – che nulla è impossibile a Dio. Questo lo troviamo nella liturgia antica, nei testi dei Padri della Chiesa coetanei di quest’affresco e, dunque, è un segno per dire che cosa sta succedendo adesso fra te e il tuo morto, il morto parente tuo che è in quella tomba lì: qualcosa di analogo, di simile a quello che è successo nell’Annunciazione; anzi, l’Annunciazione è la chiave di lettura principale per capire che cosa tu stai facendo, la parola di Dio che tu stai pronunciando sopra il tuo morto, la liturgia che tu stai celebrando qua, vicino alla tomba, è parola di resurrezione, di vita nuova: nulla è impossibile a Dio. Abbiamo altri esempi che invece sono legati agli altari, sempre del primo millennio oppure come la Martorana a Palermo.
Sopra l’arco trionfale, esattamente sopra l’altare. Perché proprio l’Annunciazione sopra l’altare o, spesso, sopra gli altari o, a volte nelle nostre chiese, sopra il tabernacolo o nella decorazione frontale degli altari? Anche lì abbiamo dei testi, abbiamo delle parti della liturgia antica dove vediamo chiaramente che, nel contesto vitale del cristianesimo del primo millennio, l’Eucaristia è la continuazione dell’Incarnazione; cioè, i Padri ci dicono che, così come Dio è venuto a essere realmente presente in Maria, presenza reale nel ventre di Maria, così succede esattamente quando il sacerdote pronuncia le parole della consacrazione, quando diventa realmente presente il corpo di Cristo. Dunque, tu comunità sei Maria, il tuo vero autoritratto spirituale, di te comunità, è Maria, fecondata, raggiunta da quella parola che è l’angelo, la liturgia, che è ciò che noi celebriamo nella messa, che rende presente realmente il corpo di Cristo. Andiamo di nuovo nelle catacombe di Priscilla, ancora una volta all’inizio del III secolo, nel 220-225.
Anche questa è una delle immagini più antiche in assoluto di tutta la storia dell’iconografia mariana, questa è la più antica immagine di Maria e abbiamo un’altra interpretazione o, meglio, un altro elemento-chiave di lettura per una possibile interpretazione. Campeggia una stella. Si riconosce sopra, appena sfumato fra le due teste, una zona più oscura che è una stella. Sulla sinistra un uomo che sembra segnalare, indicare questa stella. Dall’altra parte, verso la destra, Maria e il Bambino sono abbastanza facilmente riconoscibili. Chi è quest’uomo che segnala, che indica la stella? Ci dicono gli studiosi che quell’uomo è un profeta dell’antico Testamento, Balaam, che aveva preannunciato la venuta del Messia come una stella. Allora, prima dei Re Magi, esiste già nell’Antico Testamento il tema della stella legata al Messia che sta per venire, al Messia che stiamo aspettando. Ma che senso ha rappresentarlo sopra quattro tombe, come sta esattamente situato nelle catacombe di Priscilla? Il desiderio, la promessa della vita, perché Balaam incarna sia i Padri – coetanei di queste immagini – sia l’annunciare una vita che può ancora non vedi. L’annunciare è saper aspettare quello che i cristiani nelle catacombe sarà la risurrezione finale che tu ancora non vedi, quella luce che tu ancora non vedi. Così, possiamo passare a un altro tipo di rappresentazione.
Dopo Balaam, chi è rappresentato soprattutto con una stella sono ovviamente i Re Magi. Dipende da dove sono rappresentati i Re Magi. Allora, a seconda di dove sono rappresentati i Re Magi, possiamo capirne la funzione, il significato che la comunità dava a questa rappresentazione. Essi possono essere rappresentati sul fronte degli altari: che cosa significa, di chi sono l’autoritratto, questi Re Magi? Ebbene, di noi tutti che ci avviciniamo a quell’altare, con il desiderio di incontrare Gesù e troviamo Maria che porge il Bambino Gesù a te, Re Mago che, dopo un lungo cammino, perché forse sei venuto da lontano, sei venuto qua, a questa liturgia, in quella liturgia che ti permette di capire qual era il significato vissuto del popolo della comunità quando vedevano questa immagine: “Ah, anche noi, come i Re Magi, siamo di fronte a Gesù che ci è proposto, che ci è donato, consegnato!”. Ci possono essere anche interpretazioni differenti, come per la controfacciata a Santiago di Compostela. Che senso hanno i Re Magi a Santiago di Compostela, nel nord-ovest della Spagna. Perché hanno fatto questo bassorilievo per i pellegrini che arrivavano da lontano camminando? Ancora una volta, è un selfie, è un autoritratto del pellegrino, è una catechesi rivelativa per il pellegrino: “Tu sei come quei Re Magi, perché tu, se vieni a Santiago, che è all’estremo Occidente, vieni per forza da Oriente, come i Re Magi e segui una stella (dal latino sidus-eris, da cui desiderio) segui un tuo desiderio, una sete che tu hai dentro, qualcosa che tu stavi cercando e arrivi a Compostela, cioè al “campo delle stelle”, campus stellae. Tale nove è spiegato da una leggenda che narra del ritrovamento, nell’814, dei resti dell’apostolo Giacomo. Si racconta di un monaco attratto dal cadere delle stelle su quel campo, ove scoprì i resti dell’Apostolo. Allora, tu sei come quei Re Magi.
Vedete che è sempre una spiegazione dell’esperienza spirituale di chi è fisicamente lì davanti, altrimenti noi diciamo che è un bassorilievo di tre uomini che camminano. Ci sono anche altri contesti vitali, ci sono altri usi o funzioni come, per esempio nelle facciate di alcune cattedrali medievali o nei timpani di alcune cattedrali medievali. Che significato hanno, come parlare, come spiegare queste processioni di Re Magi, visibili a chi sta per entrare nella chiesa? Di nuovo, tu entri qua come i Re Magi e che qui dentro incontri la tenerezza di Gesù Bambino, la fisicità di Dio che ti è donata dalla comunità cristiana, simboleggiata da Maria. Comunque, rivediti, comprenditi più profondamente in questa dinamica, in questo passo che è quello dei Re Magi. Abbiamo ancora un altro esempio, sempre dell’Annunciazione, in alto a sinistra e poi dei Re Magi, nel secondo registro della facciata di Santa Maria Maggiore, a Roma. È stato citato prima il Concilio di Efeso, nel 431. Esso, in riferimento a tale facciata, ci serve a dire che tutta la liturgia non è altro che il ripetere la storia dell’incarnazione; l’arco trionfale racconta l’incarnazione: annunciazione e poi natività e poi fuga in Egitto raccontano la narrazione dell’infanzia di Gesù per dire che quello che sta succedendo attualmente dentro di te, la presenza reale di Dio, la Theotókos, la genitrice di Dio è, in realtà, figura della comunità che portiamo dentro di noi, dentro la nostra liturgia, dentro il nostro stare insieme, dentro l’essere comunità, la presenza reale di Cristo.
Alcune altre immagini, invece, nel primo millennio – rare immagini della rappresentazione di Maria – isolano Maria dal racconto. Fino ad adesso, vi ho presentato delle narrazioni in immagini, cioè la comunità cristiana, soprattutto durante il primo millennio, ama rivedersi, rispecchiarsi in una narrazione fatta di immagini. A un certo momento, si isola e vediamo più vicino alle nostre quattro opere (quelle oggetto della mostra, ndr), la figura di Maria o la figura di Maria e del Bambino dalla narrazione, per rappresentare solo Maria e il Bambino. Ecco, questa è un’operazione che avviene gradualmente, ma che è molto interessante perché, in qualche modo, è come far entrare te attivamente, interattivamente a interpretare ogni volta, di nuovo, quello che prima era rappresentato quando c’era la rappresentazione completa della narrazione; adesso, la narrazione sei tu, adesso devi interagire, come succede nella preghiera, con questa immagine di Gesù portata da Maria, cioè portata da qualcun altro. Non ti sei inventato Gesù, Gesù ti è stato dato da qualcun altro. Nella quarta delle vostre opere (Madonna Metterza di Stigliano), è ancora più bello, c’è addirittura Anna, l’avevamo visto prima. È straordinario questo, cioè il tuo stare con Gesù, ricevere la fede, incontrare Gesù è una storia che ha attraversato le generazioni, le generazioni della comunità, Maria è sempre simbolo della comunità che ti porge, che ti fornisce, che ti consegna l’incontro misterioso con Dio. Allora, adesso sei tu lì davanti. E infine, queste immagini della Basilissa, della regina o come qua, a Santa Maria di Trastevere, o qua a Sant’Angelo in Formis, sono il rivestimento della sovranità di Maria e della festa di noi tutti. Lei è la regina, l’imperatrice come, in realtà, siamo ciascuno di noi, cioè la dignità di tutto il popolo, di tutta la comunità ancora una volta rispecchiato e qua, a Sant’Angelo in Formis, rispecchiato nell’atto stesso dell’orante, cioè quando tu preghi. Quando tu preghi, sei la regina; quando tu cerchi nel tuo cuore Dio, sei rivestito di gioia e non è un caso che il testo di Isaia dice esattamente queste parole, che sei rivestito della veste del sovrano, della veste di salvezza, della veste di luce, è un testo molto commentato dai maestri medievali, anche del primo Medioevo.
Questo popolo, rivestito di vesti di luce, di veste di sovrano, siamo noi tutti nell’incontro con Dio. L’ultimo punto è l’importanza della simbologia dei dettagli, cioè del sapere spiegare bene l’impatto di alcuni simboli che hanno attraversato le culture, i secoli e le religioni, perché sono simboli profondamente legati alla nostra antropologia di fondo, al di là di fede e non fede. C’è stata prima la Maternità, il bisogno di un riferimento di tenerezza, il bisogno di esprimere l’esperienza di fede come esperienza di tenerezza, cioè, forse più che, perché la nostra esperienza è quella di una povertà, perché la nostra esperienza è quella di una durezza, di una paura, di uno scontro, di una violenza. Allora, vengo qua, Madre di tenerezza, per una ricerca di tenerezza che è specchio della tenerezza di Dio e fa parte della ricerca dell’essere umano. La nostra tradizione lo esprime in questo rapporto materno fra Maria e il bimbo; Maria simbolo della tenerezza di Dio, è vero ma della nostra tenerezza con il bimbo, anche. Questo ha una radice biblica, non è un paganesimo del cattolicesimo. Quando Gesù dice: “Chi sono mia madre, i miei fratelli? Voi, chiunque ascolta la Parola di Dio, questa è mia madre”. Fratello, sorella e madre: dunque, la comunità cristiana è ciascuno di noi. Nel modo di rapportarsi a Gesù diventa in qualche modo madre di Gesù, concepisce la presenza; è luogo, come dicevamo, dove l’incarnazione continua ma dove il rapporto giusto è quello di tenerezza, di rapportarsi come una madre.
L’ultimo e taglio, perché mi piace spiegare, è stato citato quello del melograno che, molto spesso, nella iconografia mariana è un simbolo precristiano di tantissime civiltà. Nella Grecia antica era simbolo della fertilità, legato alle divinità, anche dell’eros, della fertilità, della fecondità. Nell’Antico Testamento, come è stato giustamente detto, è uno dei tre frutti della Terra promessa, in cui gli esploratori mandati da Giosuè, entrati nella Terra promessa, tornano con fichi, uva e melograno. Dunque, quando noi vediamo un melograno in un testo cristiano, è la fantastica connessione fra questo nostro antico paganesimo delle nostre terre che fa parte di ciò che abbiamo nelle vene, che non è da disprezzare per noi cristiani ma fa parte dell’esperienza religiosa profonda dell’umanità e l’inserto biblico che riesce a inculturare lì dentro un significato ancora più profondo: guarda, è la Terra promessa, cioè è un modo di vedere la terra come promessa. La Terra promessa non è un luogo preciso della geografia, non è la terra di Canaan ma è il cambiamento di sguardi sulla tua terra, è il modo di vedere la tua terra, ogni terra, come Terra promessa, come dono di Dio, come luogo in cui incontri Dio. Allora, Maria e il Bambino con il melograno è un invito a cambiare lo sguardo sulla tua terra. Cambia lo sguardo su questa Basilicata, cambia lo sguardo su Tricarico, è terra promessa, è qua, non è Gerusalemme, la Terra promessa è qua, te lo sta dicendo questa statua.
(trascrizione a cura di Vito Sacco, rivista e autorizzata dall’autore)